Nella prossima guerra, i sopravvissuti invidieranno i morti
Nov 02, 2022Pochi giorni dopo l’assassinio e i funerali di John Fitzgerald Kennedy, all’inizio di dicembre del 1963, la vedova Jacqueline scrisse una lettera al presidente Chruščëv per ringraziarlo della partecipazione di un delegato sovietico alle esequie.
Ma nella lettera, delicata, circostanziata ed evocatrice al tempo stesso, c’è molto di più: c’è il riferimento alla "politica di confronto e di freno" su cui gli stessi Kennedy e Chruščëv si erano misurati e che Jacqueline cita espressamente nella prospettiva di un quadro più ampio di mantenimento dell’equilibrio esistente.
Non un monito, forse un invito
Tralasciando il passaggio più famoso e fin troppo spesso citato a sproposito (quello sul pericolo che le guerre non siano scatenate dai "grandi uomini", bensì dai "piccoli uomini spesso mossi, nelle loro azioni, dalla paura e dall’orgoglio"), emerge in particolar modo la descrizione (un racconto, quasi) di come il marito John spesso citasse le parole di Chruščëv che abbiamo preso in prestito per il titolo di questo articolo “Nella prossima guerra, i sopravvissuti invidieranno i morti”: non un monito, forse un invito, come se, nell’intensità della scrittura accorata, le parole fluiscano destinate, ancora oggi, a ognuno di noi.
Roma, 5 novembre 2022
E quel noi è oggi, a quasi sessant’anni da quel frangente, in cui sembra non essere cambiato nulla: sabato 5 novembre 2022 a Roma, Napoli e in altre città italiane ci sentiamo ancora costretti a scendere in piazza e manifestare per affermare principi e valori tristemente (e sistematicamente) disattesi come pace, uguaglianza, diritti.
“La guerra ha conseguenze globali: è la principale causa delle crisi alimentari mondiali, ancor più disastrose in Africa e Oriente, incide sul caro-vita, sulle fasce sociali più povere e deboli, determina scelte nefaste per il clima e la vita del pianeta. La guerra ingoia tutto e blocca la speranza di un avvenire più equo e sostenibile per le generazioni future”, questo afferma il comunicato per la manifestazione di sabato 5 novembre.
La guerra travolge tutto e, naturalmente, travolge prima e con conseguenze potenzialmente irreversibili tutte le persone che hanno meno strumenti per attutirne gli effetti nefasti: non solo minori strumenti economici, ma anche più generali opportunità di consapevolezza, di partecipazione e di emancipazione sociale.
Partecipazione (democratica) di massa
La partecipazione collettiva è un passaggio fondamentale dell’affermazione dei principii di uguaglianza e solidarietà, perché agisce (compatibilmente con lo stato di salute della democrazia che ancora riteniamo di essere) come strumento di pressione per le scelte politico-strategiche che poi proprio noi come cittadini, ultimo (ma non ultimo) anello della catena, pagheremo sulla nostra vita e sulla nostra coscienza.
È più di un dovere civile, la partecipazione individuale che si fa movimento collettivo e globale: è il minimo contraltare del sacrificio di chi, materialmente sotto i bombardamenti, difende la propria vita e, al tempo stesso, la nostra stessa libertà di espressione guadagnata in modo tutt’altro che indolore sul sangue di chi ha combattuto prima di noi.
L’oggi ritorna implacabile: ritorna anche se non siamo noi a combattere armati, anche se non viviamo l’impellenza di difenderci da un’aggressione militare, ma l’urgenza dell’azione risuona implacabile perché ci obbliga a scegliere da che parte stare, ci impone di schierarci.
Ma non è una questione di appartenenza alla fazione dei presunti buoni contro quella dei sedicenti cattivi, è invece una dinamica di pacifismo (o meglio, di ferrea volontà di pace sistemica e strutturale) tout court.
La battaglia, infatti, non è solo tra popoli e Paesi diversi, ma è tra chi crede nell’assoluta e inscalfibile uguaglianza tra le persone e chi invece, “forte” di un cavillo o di una convenienza strumentale, legittima le disparità e le sperequazioni attraverso la propria inazione: e la mancanza di intervento, l’assenza di scelta, tanto sul piano geopolitico dello scacchiere internazionale quanto sul livello dell’attiva partecipazione individuale, fanno di noi (Paese e cittadini) dei correi e dei corresponsabili a tutti gli effetti.
Noi sabato 5 novembre ci saremo, partecipando direttamente e documentando l’urgenza umana e sociale di contrapporci alla guerra in quanto tale, allo strumento di potere esercitato al di fuori e oltre i confini del bene collettivo.
Vittime e sopravvissuti
E l’urgenza non ha nulla di emotivo, ma è dettata dal tempo che scorre mentre lascia vittime e sopravvissuti sul campo: quindici anni prima della lettera di Jacqueline Bouvier (Kennedy Onassis) a Chruščëv, nel 1948, mentre l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adottava formalmente la "Dichiarazione universale dei diritti umani" (forse una delle massime espressioni della volontà collettiva, seppur violata ripetutamente in ognuno dei 30 articoli che la compongono), Einaudi pubblicava “La casa in collina” di Cesare Pavese.
La guerra era finita da poco, e Pavese scriveva: “Ora che ho visto cos'è la guerra, cos'è la guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: e dei caduti che facciamo? Perché sono morti? E io non saprei cosa rispondere, non adesso almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero".
Francesco Scura '22
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